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Il Porto di Ostia Antica rappresenta una delle testimonianze piรน eloquenti e stratificate del rapporto tra l’espansione imperiale romana e le infrastrutture logistiche a supporto del commercio mediterraneo. Giร in epoca repubblicana, Ostia aveva assunto un ruolo strategico come primo scalo sul Tevere, ma fu con l’intervento decisivo di Claudio e, in seguito, di Traiano che l'area portuale fu monumentalizzata e resa pienamente funzionale alla crescente complessitร dei traffici commerciali della capitale dell’impero. Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia (XIX, 5), celebra l’ingegnositร degli interventi claudiani che prevedevano due moli curvati e un faro ispirato ad Alessandria, mentre lo stesso Svetonio (Claudio, 20) sottolinea le difficoltร incontrate nell’opera a causa delle sabbie mobili e delle maree che resero indispensabile il genio degli architetti imperiali.
Ostia, tuttavia, rimaneva soggetta all’insabbiamento e all’irregolaritร dei fondali, e fu proprio per ovviare a queste criticitร che Traiano progettรฒ un nuovo bacino esagonale, ancora visibile, collegato al Porto di Claudio e al Tevere attraverso un sistema di canali, soluzione che Tacito stesso (Annales, XV, 18) interpreta come espressione della razionalitร imperiale al servizio dell’urbs. L’area archeologica attuale restituisce con forza l’immagine di una cittร dinamica, commerciale, brulicante di mercanti, schiavi, funzionari imperiali e pellegrini.
I mosaici del piazzale delle Corporazioni, con i loro motivi simbolici e le scritte in greco e latino, danno conto della varietร di provenienza delle merci e dei protagonisti: operatori di Cartagine, Alessandria, Sabrata e anche di regioni interne come l’Africa Proconsularis, ciascuno con le proprie divinitร protettrici e le proprie peculiaritร merceologiche. I magazzini, le horrea, perfettamente conservati, raccontano di una gestione logistica avanzata, e la presenza dei collegia dei naviculari e dei negotiatores suggerisce un controllo capillare e una visione proto-amministrativa della distribuzione. Non va dimenticato, infine, il valore simbolico e ideologico del porto stesso: era una porta maris ma anche una porta urbis, e attraverso di essa passavano i segni del potere imperiale, non soltanto derrate e materiali, ma idee, religioni, pratiche culturali.
L'archeologo R. Meiggs, nel suo fondamentale studio Roman Ostia (1960), insiste sul fatto che Ostia e i suoi porti erano “una macchina commerciale e imperiale perfettamente regolata fino alla crisi del III secolo”, e i dati epigrafici lo confermano con iscrizioni che testimoniano appalti, contratti e offerte votive collegate al funzionamento delle strutture portuali. Oggi passeggiare tra le strade di Ostia Antica, tra la via della Foce, il Foro delle Corporazioni e il Teatro Augusteo, significa immergersi in un organismo urbano concepito come estensione funzionale e simbolica di Roma stessa. La potenza di Roma non si misurava solo nei fori e nei templi del centro, ma anche nella capacitร di controllare e distribuire le risorse di un impero, e Ostia, con i suoi porti, ne fu fulcro pulsante e irripetibile.
I mosaici del Piazzale delle Corporazioni a Ostia Antica rappresentano uno dei documenti piรน affascinanti dell’economia e della struttura organizzativa del commercio romano imperiale. Questo vasto piazzale rettangolare, situato dietro il teatro e risalente in gran parte alla fine del II secolo d.C., ospitava circa sessanta ambienti (chiamati stationes), ognuno dei quali era probabilmente sede di una corporazione commerciale — i cosiddetti collegia — operanti nel porto di Ostia e nei porti collegati dell’impero.
I mosaici in bianco e nero che decorano il pavimento di ciascuna statio erano veri e propri emblemi pubblicitari: rappresentavano con immagini simboliche e scritte l’identitร geografica, economica o devozionale della corporazione. Vi si riconoscono navi con diversi tipi di carico, elefanti (a indicare commerci con l’Africa), anfore, balene, tridenti, faraglioni, e addirittura riferimenti religiosi come i simboli di Serapide o della dea Iside, a testimoniare i legami con l’Egitto e le sue rotte.
Significative sono le scritte in greco o in latino che accompagnano i disegni: "NAVICVLARI AFRICAE", "NAVICVLARI PUNICI", "STATIO XXIV", segnalano le origini dei mercanti — Cartagine, Leptis Magna, Sabrata, Alessandria — oppure la posizione nello spazio del piazzale. La varietร dei soggetti e delle iscrizioni non รจ solo una mappa dei commerci, ma un documento della multiculturalitร di Ostia: un porto dove si parlavano piรน lingue, si praticavano piรน culti, e si regolavano transazioni su scala mediterranea. I mosaici servivano anche a orientare i clienti: una sorta di insegna a terra, immediatamente leggibile, che forniva identitร visiva e reputazione alla corporazione ospitata.
Il piazzale, con la sua regolaritร planimetrica e il suo decoro omogeneo, suggerisce un’organizzazione fortemente centralizzata e regolamentata, verosimilmente sotto il controllo imperiale. Lo spazio era pubblico, ma le stationes erano assegnate, forse a rotazione, alle varie corporazioni, il che indica una gestione dinamica e attiva del commercio e dei rapporti economici nel porto.
Gli studiosi come J.-P. Adam e M. Floriani Squarciapino hanno sottolineato come questi mosaici rappresentino non solo un documento economico, ma anche un modello unico di comunicazione visiva nel mondo romano, funzionale ma anche estetico, capace di unire immediatezza pratica e orgoglio identitario.
Bibliografia specifica sui mosaici e le corporazioni
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Floriani Squarciapino, M. Il Piazzale delle Corporazioni ad Ostia. Roma: L’Erma di Bretschneider, 1962.
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Pavolini, C. La vita quotidiana a Ostia. Roma-Bari: Laterza, 1986.
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Rieger, A.-K. Gott und Gรถtter in Ostia. Untersuchungen zur religiรถsen Erfahrung in der rรถmischen Stadt. Tรผbingen: Mohr Siebeck, 2004.
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Hermansen, G. Ostia: Aspects of Roman City Life. Edmonton: University of Alberta Press, 1981.
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Duthoy, R. Les corporations ร Ostie d’aprรจs les inscriptions et les mosaรฏques du Piazzale des Corporations. In: Bulletin de l’Institut Historique Belge de Rome, 38 (1967), pp. 85–153.
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